Questo tempo grigio mi sta stancando. Mi dà noia. Come ingannarla? Provo a guardarci dentro. La prima cosa è la pesantezza e il ricordo di alcuni versi: quando un cielo basso e greve pesa come un coperchio / sullo spirito gemente in preda a lunghi affanni. Baudelaire, chi altri poteva venire in visita in un giorno così? Mi suggerisce che la mia noia è un ennui, un “mal di vivere” esistenziale e senza tempo. E questa pioggia torinese evoca la pioggia parigina di quasi 200 anni fa, una pioggia immensa e fitta che trasforma la città in un’enorme prigione. Ecco, mi sento così: grigio, meccanizzato, monotono.
È un sentimento complesso, la noia.
Ha un doppio significato: da un lato quello etimologico di “(essere) in odio” (dal latino in odium), ossia di qualcosa di fastidioso, di molesto; dall’altro quello di tedio, legato a un senso di nausea e insofferenza per situazioni vuote o ripetitive. Questo secondo significato apre un mondo a parte: attese inattese, monotone ripetizioni, affanni esistenziali, dolori di cui non si conoscono bene le cause. È il taedium vitae di Lucrezio, la ripugnanza per la vita, ma questo stato d’animo lo troviamo sotto tante forme nella storia dell’umanità: nella vanitas Seicentesca (che riprende l’Antico Testamento, dove Qohelet afferma: “vanità delle vanità, tutto è vanità”), nello spleen e nell’ennui (romanticismo e decadentismo inglese e francese), nel mal du siècle e nel weltschmerz, e ancora nella Nausea di Sartre e nella Noia di Moravia.
Certo che l’umanità dev’essersi annoiata parecchio per produrre una tale sfilza di espressioni e concettualizzazioni del mal di vivere. Da ciascuna di queste si aprirebbero strade percorribili e in parte uniche, ma qui voglio soffermarmi su un aspetto che tutte le accomuna. Fra le righe, tutte lasciano intendere un’affermazione ben precisa: “basta, non ne posso più!”. Capita anche a voi di pensarlo? Ma che cos’è quel “ne”? Non posso più cosa, cos’è che mi ha stufato tanto? Se lo scopriamo siamo salvi. La vita? Sì, ma è molto vago… Il lavoro? Senz’altro, però… Una quotidianità trita e ritrita? Be’, ma non lo è sempre… Questa roba qua? Eh, sì, ma che cos’è?
Seneca, riflettendo sulla questione, scriveva: “perché ti meravigli che non ti giovino per nulla i viaggi, dal momento che ti sposti sempre con te stesso?”. Ecco, mi pare un’ottima provocazione. La noia ci spinge sempre a fuggire da qualcosa (da quel “ne” che ci tormenta) e di cui non sappiamo parlare. Seneca – forse un po’ moralista – ci suggerisce di guardarci allo specchio anziché andare a Rimini in spiaggia. Guardarci dentro in effetti mi pare una buona soluzione (oggi con me sta funzionando!). Proviamo.
Nella noia troviamo un po’ di tutto: a volte indifferenza per ciò che ci sta attorno, molto spesso un tempo dilatato o dolorosamente fermo, quasi sempre un offuscamento dei sensi e una vaghezza mentale. Troviamo anche qualcos’altro, proprio accanto a questa vaghezza. La noia ci rende irrequieti, ci tinge spesso di quella tristezza desiderosa di qualcosa, ci fa disperatamente impazienti. Di uscirne? Senz’altro, eppure credo che l’oggetto del nostro desiderare – quel qualcosa che ci tormenta in negativo mentre siamo annoiati – si trovi dentro e oltre la noia. Quello che pomposamente la Treccani descrive come “lo scarto inesorabile tra un reale sofferto e derisorio e un oggetto inattingibile” è la nostra via d’uscita.
La noia, per quanto sgradevole sia, ci rende un grande servizio: facendoci sentire vuoti e monotoni ci sussurra che abbiamo bisogno di qualcosa, che desideriamo qualcosa che neppure siam più in grado di dire con precisione. Ci ricorda forse che abbiamo dimenticato di desiderare e che invece abbiamo bisogno di desiderare. Che all’altro capo della noia abitino i nostri desideri?
Dott. Martino Lioy, Psicologo clinico,
Specializzando in Psicoterapia e psicodramma