Nel mio paese un po’ sperduto in montagna nella piazzetta centrale c’è una scritta sul muro dipinta nei tempi del fascismo che riporta: “ E’ tempo di dire che l’uomo prima di sentire il bisogno della cultura ha sentito il bisogno dell’ordine.”
Questa frase, ovviamente modificata, mi è risuonata in testa nel momento in cui ho scritto questo articolo: “E’ tempo di dire che l’uomo prima di sentire il bisogno di parlare ha sentito il bisogno di COMUNICARE.”
Effettivamente se pensiamo ontologicamente, sia nella storia dell’umanità sia in quella di ogni essere vivente, la conquista del linguaggio è avvenuta grazie al raggiungimento di tappe comunicative essenziali. Il linguaggio è uno fra i tanti canali di comunicazione, non è l’unico! Sebbene sia la forma dal punto di vista cognitivo più complessa, non è sempre unicamente chiaro. Pensare a quante volte uno sguardo o un semplice gesto possano esprimere seriamente più di mille parole, e a quante volte quest’ultime ci portano ad incomprensioni e fraintendimenti. I sociologi sostengono infatti che la gran parte di una comunicazione passi attraverso i canali non verbali, e proprio all’interno di essi, esistono prerequisiti fondamentali, che il bambino deve acquisire per garantire successivamente un adeguato sviluppo del linguaggio orale.
Una delle prime forme comunicative utilizzata dal bambino è la gestualità con uno scopo prettamente richiestivo. L’uso del pointing, ovvero l’indicazione attraverso il dito indice, serve per soddisfare le esigenze primarie del bambino stesso. All’interno di questi primi scambi di comunicazione, l’altro è essenzialmente uno strumento indispensabile per raggiungere l’obiettivo. Solo successivamente, con un adeguato sviluppo cognitivo, il bambino sarà in grado di interiorizzare l’altro come essere interlocutore capace di pensieri propri con cui condividere una situazione e quindi acquisirà funzioni comunicative più complesse come il commentare, il fornire spontaneamente informazioni o il chiedere informazioni.
Cosa succede nei bambini affetti da Autismo e cosa può fare il logopedista?
Nei bambini affetti da disturbi dello spettro autistico la bassa frequenza comunicativa è una delle caratteristiche peculiari. Uno dei criteri utilizzati dai medici per fare diagnosi dal DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) è:
- Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti (…).
Comunicare, nell’accezione più restrittiva, significa trasmettere un messaggio intenzionalmente, ed è proprio un deficit nell’intenzionalità comunicativa e di conseguenza delle sue espressioni che marca il quadro autistico. Ricordiamoci che non è sempre detto che chi parla “troppo” comunichi realmente qualcosa ,magari ripete semplicemente o utilizza un linguaggio senza nessuno scopo.
Il logopedista di fronte ad un bambino con deficit in ambito comunicativo ha il compito di valutare in quale fase di sviluppo si collochi rispetto allo sviluppo tipico. Lo specialista cercherà di interagire con il bambino, di alimentare l’interesse per la relazione, di favorire esplicitamente l’emergere di funzioni e forme comunicative adeguate. Solo quando le tappe fondamentali della comunicazione non verbale saranno acquisite e generalizzate si potrà impostare un lavoro sul linguaggio verbale e utilizzarlo come forma comunicativa più astratta.
E’ errato pensare che in presenza di deficit comunicativi non sia necessario richiedere l’intervento di un logopedista se il bambino ancora non parla. Anzi, è opportuno iniziare il prima possibile, approfittando dell’arco temporale in cui il bambino apprende più facilmente e limitarne così le conseguenze.
La logopedista che collabora con il Centro Nemesis nella sede di Milano
Dott.ssa Borghini Carlotta
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