Negli ultimi mesi sono stati molti i suicidi che avevano come protagonisti degli adolescenti o giovani adulti, e diverse sono state le interpretazioni e le letture che sono state date ai diversi casi, dall’opinione pubblica a professionisti di varia formazione.
Si è acceso un dibattito attorno al caso del ragazzino ligure che si è suicidato dopo che la madre aveva chiamato i carabinieri per arginare in qualche modo l’utilizzo di cannabis del ragazzino, non sapendo come fare diversamente. Questo caso particolare ha scatenato polemiche, dall’annosa questione sulla legalizzazione delle droghe leggere, sulla necessità di controllare chi spaccia piuttosto che chi consuma, sui metodi poco teenager-oriented della polizia e della guardia di finanza. Tutti spunti interessantissimi, con adeguatissime basi teoriche e anche empiriche.
Penso che sia importante guardare oltre: cos’hanno in comune questi ragazzi che ad un certo punto (molto precoce) della loro vita non ce la fanno più a reggere il confronto con il mondo?
Un pedagogista ha scritto un interessante articolo nel quale sottolineava l‘influenza del massiccio utilizzo della realtà virtuale, tale da non permettere un confronto con gli aspetti meno piacevoli della realtà.
Perché è questo il nucleo della questione: i ragazzini di oggi spesso temono di non essere in grado di reggere la realtà, intesa come tutto completo, nel quale, evidentemente, esistono anche aspetti negativi, e non esistono solo i sogni e i desideri, ma anche fallimenti e frustrazioni.
Perché? Una riflessione che mi viene in mente, osservando quelle che sembrano essere le consuetudini educative contemporanee, è che i genitori a volte, (forse per reazione a metodi educativi desueti anche troppo crudi, o per una paura che sviluppano loro stessi rispetto a certi aspetti della vita moderna) ora hanno la tendenza a voler proteggere in maniera innaturale, esasperata i propri figli sia da pericoli, sia da frustrazioni, in generale dai limiti che la vita pone. Come se tutto ciò che avesse segno “–” non potesse essere affrontato, e dovesse (e potesse) essere evitato il più a lungo possibile.
Facendo riferimento ai primissimi anni di vita, capita spesso di osservare, nell’ultimo decennio, che non vengano più raccontate le favole tradizionali perché “è troppo duro esporre i bambini a paura e cattiveria”.
Il problema è che persone con cattive intenzioni esistono anche nella vita di tutti i giorni: forse è più utile avere in mente questo, nonché imparare cosa sarebbe meglio fare in questi casi, piuttosto che fingere che non esistano.
Nello stesso modo esiste la possibilità di sbagliare, è intrinseca nell’uomo, ma è altrettanto normale ricevere un rimprovero (proporzionato) per questo, che non mette in discussione il rapporto tra chi compie “l’errore” e chi “punisce”, ma fa semplicemente riferimento a un sistema di regole: da questo si impara come poi indirizzare il comportamento successivo, e raggiungere infine, tramite vari assimilazioni e aggiustamenti, uno sviluppo morale e soprattutto la tolleranza della frustrazione.
Se si rimanda all’infinito il confronto con il mondo, il rischio è che quando questo avviene l’impressione del giovane è di non avere gli strumenti per poterlo fronteggiare, e anche le più piccole frustrazioni, per chi le ha sempre evitate, possono sembrare monti invalicabili, di fronte ai quali manca il respiro dalla paura.
C’è chi si ritira in sé stesso, magari rifugiandosi nel massiccio uso della realtà virtuale, per la paura di affrontare il mondo, e chi, appunto si sottrae alla vita.
Gli adolescenti infatti, proprio per il funzionamento tipico del momento di vita in cui sono, tendono all’acting out (passaggio all’atto), quindi a compiere comportamenti che possono essere aggressivi e impulsivi, non elaborati dal punto di vista cognitivo, per esprimere vissuti molto potenti.
Le conseguenze delle azioni spesso non vengono anticipate e quindi, nello specifico caso, al pensiero del “non posso reggere” collegato a un fortissimo vissuto di impotenza e annichilimento, segue l’azione del sottrarsi, estrema, senza la reale percezione di avere di fronte un non ritorno.
Sicuramente il mestiere del genitore è il più difficile di tutti, (seguito da tutte le figure professionali di chi ha a che fare con l’educazione dei primissimi anni di vita), però è utile avere presente che una dose eccessiva di protezione può essere quasi altrettanto dannosa di un’assenza di protezione.
Concludo con una frase di Gilbert Keith Chesterton, che trovo molto sintonica a questi nostri giorni.
“Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono.
Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi”
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