L’idea di Roman Krznaric, filosofo britannico ed ex docente di Cambridge, è quella di creare “uno spazio di esperienze e condivisione”.
“A mile in my shoes” è la prima installazione interattiva dell’Empathy Museum e vi permette di camminare lungo il Tamigi entrando nei panni (nelle scarpe) di un’altra persona e di ascoltare al tempo stesso la sua storia.
Ma cos’è esattamente l’empatia e, soprattutto, è sempre vantaggiosa?
Il termine empatia deriva dal greco (en-pathos, “sentire dentro”) e rappresenta proprio la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”.
In Psicologia possiamo parlare di empatia emotiva, capacità di condividere l’emozione che l’altro vive, provando la medesima sensazione, ed empatia cognitiva, capacità di comprendere il punto di vista dell’altro, le sue intenzioni e i suoi pensieri, guardando la situazione dal suo punto di vista.
Ecco allora che vedere il mondo con gli occhi dell’altro sembra poter diventare la ricetta perfetta per un mondo più giusto in cui si crei un senso di responsabilità collettiva e non solo verso noi stessi.
“I’ve seen a 75-year-old woman scooting along the riverside on roller skates while listening to the story of a roller derby champion.
I’ve seen curious men slip on the size 12 stilettos of a bearded drag queen.
I noticed a woman almost in tears listening to the narrative of someone who lost members of her family in a tragic accident, while I was told by others that the very same story made them feel empowered and more fully alive:”
Roman Krznaric
Sul sito internet troverete anche un catalogo online (Empathy Library) in cui è possibile votare film e libri consigliati a chi vuole migliorare il proprio tasso di empatia.
Krznaric ricorre ad un neologismo (Outrospection) per spiegare come la capacità di comprensione e immedesimazione nel punto di vista altrui possa essere contrapposta all’introspezione (RSA The Power of Outrospection).
E se provare empatia ci si ritorcesse contro?
Lo psicologo Bloom ed il neuroscienziato Davidson sostengono, un po’ provocatoriamente, che essere troppo empatici potrebbe portare a degli svantaggi in quanto:
- tendiamo comunque ad essere maggiormente empatici con persone che ci assomigliano o che vivono situazioni simili alle nostre, creando sempre maggiore distanza con chi invece ci appare diverso
- ci concentriamo su singoli casi e non su problematiche più ampie ma con minor impatto emotivo
- rischiamo di assorbire emozioni negative e di sviluppare anche un maggior bisogno di punire i colpevoli, alimentando un clima di aggressività e violenza
- l’eccesso di empatia potrebbe portare a sovraccarichi emozionali e diventare quindi dannosa per la persona o per alcuni tipi di professioni (come per esempio quella dello psicologo)
- troppa empatia potrebbe portare meno conforto alla persona che ci richiede aiuto e che, invece di sentirsi sostenuta, si preoccuperebbe per il nostro stato d’animo
(Fonte: Empathy: Overrated?)
Meglio quindi non provare empatia?
Secondo Bloom e Davidson sarebbe meglio provare compassione (dal latino compatire, cŭm ‘con’ e păti ‘patire’, patire insieme). E’ un termine utilizzato molto spesso a valenza negativa ma che in realtà racchiude la capacità di comprendere la situazione dell’altra persona evitando però un’eccessiva immedesimazione.
In questo modo saremmo in grado di agire realmente nel bene dell’altra persona e non solo in relazione alle emozioni che la sua sofferenza suscita in noi.
Pensiamo, per esempio, ad una mamma che soccorre il figlio che si è fatto male, ad un medico che interviene per aiutare un paziente, ad un terapeuta che aiuta le persone ad affrontare i propri problemi, ad un fidanzato che sostiene la compagna in difficoltà..
Qual è il giusto livello di empatia?
Mark Davis propone un modello integrato che comprenda entrambi gli aspetti (cognitivo ed emotivo) e descrive quattro scale da tenere in considerazione per poter misurare il grado di empatia di una persona:
- la tendenza a immedesimarsi in situazioni di fantasia, come libri, film, ecc.. (Fantasy Scale)
- la capacità di adottare il punto di vista dell’altro nella realtà (Perspective Taking)
- la condivisione dell’esperienza emotiva altrui (Empathic Concern Scale)
- la consapevolezza dei propri stati di apprensione, disagio, nell’assistere alle esperienze emotive altrui (Personal Distress Scale).
Le prime tre scale (in particolare la capacità di adottare il punto di vista dell’altra persona) sono legate da una
correlazione negativa con l’ultima scala e sembra che questo cambiamento avvenga naturalmente crescendo.
Per potersi mettere nei panni di un’altra persona bisogna imparare a percepire un minor stato di disagio e sofferenza personale e riuscire, invece, ad imparare a preoccuparsi realmente per l’altra persona.
Insomma, sembra si debba passare da una forma di empatia più “egoista” (auto-centrata) ad una più altruista perché questo ci permetterebbe di aiutare di più e in maniera più efficace gli altri!
(Articolo) PSICOLOGIA E CINEMA. “Inside Out” e la rivincita delle emozioni (tutte!)